Racconti di viaggio

RICORDI DI VIAGGIO : COLOMBIA

Fine anni ’90. L’agenzia con cui collaboro mi chiede di partire per una site inspection in Colombia. Le proposte del corrispondente locale non convincono completamente.
Parto con destinazione Cartagena de Indias. Primo scalo Madrid e poi Bogotà.
All’aeroporto Rafael Nunez di Cartagena mi aspetta il giovane titolare dell’agenzia corrispondente. Mi accompagna in albergo. L’hotel è in stile coloniale, iconico e di alto livello. Ceniamo assieme. Ci diamo appuntamento per il giorno dopo. Dobbiamo selezionare i servizi da proporre al gruppo.

Cartagena è patrimonio dell’umanità. Il suo centro storico con il suo labirinto di viuzze è un salto a ritroso nel tempo. Visitiamo ristoranti, locali e le principali attrazioni.
Prima di cena mi avanza del tempo libero. Torno nel barrio pieno di ristorantini e locali. Bighellono. Una ragazza colombiana esce da un locale. E’ molto bella. Ha i capelli corvini e un vestito rosso fuoco. Ci salutiamo. Mi chiede se ho bisogno. No, sono qui per lavoro. Sono italiana. Mi offre un drink. Io parlo con i sassi. Evidentemente anche lei. Ci intervistiamo. Siamo curiose l’una della vita dell‘altra. Alla fine mi regala una confezione di caffè colombiano. Il caffè risulterà per me imbevibile. Mio marito Massimo lo userà come pigmento per dipingere e aromatizzare un quadro dal titolo “Manutenzione del sistema nervoso centrale”. Una tazzina da caffè è la protagonista del dipinto.

Massimo Costantino: Manutenzione del sistema nervoso centrale. Acrilico su tela. 60x 80

L’indomani è previsto la site inspection a Santa Marta, la città più antica della Colombia. Circa 230 km. L’agenzia mi ha messo a disposizione un’auto di rappresentanza con autista. Con noi viene anche un’impiegata dell’agenzia. L’ordine è di partire prestissimo e tornare in serata a Cartagena, possibilmente prima che faccia buio. La strada non è sicura. Ottimo!
L’autista è un bell’uomo di mezza età dai capelli brizzolati. Ricorda un po’ Gianni Agnelli. L’impiegata è una donna simpatica e minuta. Mi siedo dietro con lei.
Partiamo. La strada è molto trafficata. Piena di camion e cantieri. Non si può correre.
Il paesaggio è fantastico. Andando verso Santa Marta ho sulla mia destra la catena montuosa ricoperta dalla foresta tropicale, la Sierra, sulla mia sinistra il turchese del mar dei Caraibi. Passiamo agglomerati urbani così poveri che fanno male al cuore. Penso : sono nata e cresciuta dalla parte fortunata del mondo senza alcun merito.

Mentre viaggiamo faccio un po’ di conversazione di cortesia con i miei accompagnatori. Poi mi scatta la domanda fatidica. “I guerrilleros?” L’autista sussulta. Percepisco imbarazzo e paura. Poi racconta. Mesi prima, accompagnando la moglie per una visita medica a Bogotà, sono stati fermati e derubati da un gruppo di loro. E’ ancora traumatizzato. Felice di aver salvato la pelle e l’auto. Indica le montagne. Sono in migliaia, tutti nascosti lì dietro. Quando vogliono qualcosa, scendono e assaltano i villaggi e depredano gli abitanti poverissimi. Li considera criminali. Li odia. Guardo la Sierra. Penso: Fantastico, montagne che pullulano di guerriglieri!

Arriviamo più tardi del previsto a Santa Marta. La città è un gioiello di inusitata bellezza. I suoi dintorni sono meravigliosi e incontaminati. Compio le visite e i sopralluoghi di rito. Il Direttore del resort dove alloggeremo il gruppo insiste per offrirci il pranzo. Accettiamo. Il tempo scorre. Il Direttore si dilunga in chiacchiere. L’autista comincia a diventare nervoso. Finalmente riesco a concludere la parte operativa e commeciale. Con ritardo mostruoso risaliamo in auto per tornare a Cartagena.
Se il traffico di andata era terrificante, quello di ritorno è anche peggio. L’autista è sempre più preoccupato. Avanziamo troppo lentamente.
Sul lato della strada ci sono due poliziotti male in arnese appoggiati ad una vecchia auto scassata. Ci guardano e ci fermano.

L’autista accosta e comincia a tremare come una foglia. Dice: Madre de Dios. Non parlare. Non dire niente, non scendere. La ragazza dell’agenzia è terrea. Penso: siamo nella merda!
Gli fanno cenno di scendere. Comincia la manfrina. I documenti. Girano attorno all’auto. Toccano col piede la gomma anteriore. Gli fanno aprire il cofano. Poi il baule. Si dicono delle cose tra loro. Non sento. I finestrini e le portiere sono chiuse. Intuisco dalla mimica. L’autista implora. L’auto è in ordine. Lasciateci andare. I due scuotono la testa. No, non se ne parla.
Siamo lì da più di mezz’ora. Più l’autista supplica e frigna, più i due giocano al gatto col topo.
Apro di scatto la portiera. Scendo come una Erinni. Comincio ad insultare pesantemente tutti e tre. Urlo. Grido. Strepito. Mi sono rotta i coglioni! Voglio andare a Cartagena. Quanti solidi hai in tasca? 50 dollari. Dammeli! Apre il portafoglio. Ci sono giusti 50 dollari americani. Li sfilo. Li ficco in mano ad uno dei due brutti ceffi. Punto il dito contro l’autista. Lo fulmino con gli occhi. Gli ordino di salire immediatamente in auto e di partire. E’ lento. Metti in moto e parti, cazzo!
Ci immettiamo nel traffico della strada. Mi lascio scivolare giù dal sedile. Non vorrei che i due si riprendessero dall’elemento sorpresa. Meglio togliere il cranio dalla linea di tiro. La ragazza dell’agenzia mi imita. Penso: Stavolta l’ho fatto grossa. Non succede niente. Viaggiamo per un bel po’ senza profferire parola. L’autista si riprende per primo: Lei è matta, ma …grazie! Guardo le montagne : Si figuri! Litigo tutti i giorni con i guerriglieri travestiti da poliziotti!!!

La strada è interminabile. Fa buio. La ragazza al mio fianco si addormenta. Mi appisolo anche io contro il mio finestrino di destra. Non so quanto dormo. Mi sveglio di soprassalto. Qualcosa non va. Gli altri due si stanno agitando nell’abitacolo. E’ nero pece. Non si vede assolutamente niente. Io mi metto in ginocchio sul sedile posteriore come fanno in bambini quando vogliono vedere fuori. Nel buio totale all’improvviso il biancore di decine di occhi intorno a noi. Poi il bianco dei palmi delle mani appoggiati ai vetri. Sembrano tanti zombie. Circondano la nostra auto. L’autista grida. La ragazza ha una crisi isterica. Non vuole morire. Ha due bambini. Mi salta addosso. Mi stritola. Le tiro uno schiaffone. Molla la presa. Mi muovo come un gatto. Non capisco. Fatemi capire. Voglio capire. La nostra auto fluttua, ruota un po’ su se stessa. Abbiamo l’acqua ai finestrini. Perché c’è l’acqua ai finestrini?!

Le mani non sono ostili. Sono mani salvifiche. I contadini del villaggio tengono salda la nostra auto. Impediscono che la piena improvvisa ci trascini via. Ci depositano sull’altra riva del fiume. La macchina non si spegne. L’autista abbassa il finestrino. Stringe le mani. Ringrazia commosso. Nel buio assoluto vedo solo il biancore di occhi e denti felici della gente che ci ha tratto in salvo.
Riprendiamo il viaggio. Si formano immagini oniriche nella mia mente. Invece è accaduto realmente. L’autista dice che dobbiamo avvisare la polizia. Si ferma al primo posto. Luce fioca fuori. Luce fioca dentro. Stavolta scendo subito anche io. Dentro c’è un poliziotto alla scrivania. L’autista narra l’accaduto. Il poliziotto ci ascolta disinteressato. Per lui rappresentiamo solo una immensa rottura di palle. E’ chiaro. Quei poveracci del villaggio passeranno tutta la notte a tirare fuori dai guai le auto che finiscono nel fiume in piena.
Ripartiamo. L’autista è indignato. Poi si ricorda dei suoi 50 dollari. Piagnucola. Non lo sopporto. Pensa a guidare. Portami a Cartagena. Te li faccio ridare. Non ne posso più.
Arrivo in hotel. Mi schianto nel letto.

Riparto per l’Italia il giorno dopo. In aeroporto a Bogotà c’è fila per il controllo dei bagagli. Mi metto in coda. Dietro ad un lunghissimo tavolo bianco sono seduti gruppi di militari. Arriva il mio turno. Un militare mi fa cenno di posare sopra il mio piccolo trolley. Hanno le divise sbottonate, ridono sguaiatamente tra loro. Immergono le mani in una busta di biscotti al cioccolato. Hanno facce e mani sporche di cioccolato. Uno si lecca le dita. Infila la mano leccata nella mia valigia. Tira fuori la mia biancheria intima. La sventola come un trofeo agli altri militari. Ridono come animali. Dentro di me una tempesta di rabbia. Mi viene da piangere dai nervi e dallo schifo. Sto zitta. Prevale lo spirito di sopravvivenza. Trattengo un conato di vomito. Penso: a casa non lavo, brucio tutto. Butta dentro la mia roba nel trolley. Mi fa cenno con la testa di andarmene.

Vado diritta dal caposcalo della compagnia aerea. Mi qualifico. Sono incazzata. Gli racconto. Sono stanca. Fammi viaggiare comoda. Mi assegna 4 posti centrali solo per me. Posso volare sdraiata fino a Madrid. Subito dopo il decollo, mi stendo. Mi metto tutte e 4 le cinture come una salma. Mi approprio delle 4 coperte e dei 4 cuscini. Nascondo la borsetta sotto il mio corpo. Mi addormento come un sasso. Durante la notte percepisco una mano che cerca di sottrarmi qualcosa. Non apro neanche gli occhi. Sferro un pugno a quella mano. Sento ouch. Non mi disturba più nessuno. Mi sveglia l’accensione delle luci in cabina e l’orrendo odore di omelette che si ostinano a servire per colazione. Attorno a me le tipiche facce stralunate dei voli intercontinentali. Io sono riposata come una rosa.


Atterriamo a Madrid. La situazione all’aeroporto è infernale. E’ in atto uno sciopero. Gente urlante che vaga ovunque. Del mio volo per l’Italia non si sa niente. Mi viene da ironizzare: Forse dovrò rifarmi una vita in Spagna! Dopo questi giorni in Colombia, il caos del Barajas mi sembra una passeggiata di salute.

Finalmente sono in Italia. Massimo mi viene a prendere in aeroporto. Mi chiede del viaggio. Esito. Poi gli racconto tutto, come sempre. Lui guida silenzioso. Serra la mascella. Lo conosco. Si sta incazzando. Se soltanto prova ad accennare al mio lavoro e ai rischi connessi, parte la litigata. Sibila Brutti bastardi schifosi. Ce l’ha con i militari che mi hanno frugato nella valigia. E’ molto felice di avermi di nuovo accanto. A casa scrivo e invio il report all’agenzia. Mi butto nel letto. Dormo due giorni.


Nota: La Colombia è un Paese magnifico e merita più di un viaggio. Come tutti i luoghi può essere sicura o insicura. Da quel mio viaggio sono passati 25 anni. Sono cambiate moltissime cose. Ci sono tornata altre volte per lavoro. Molti guerriglieri sono diventati guide turistiche. Chissà se i miei due sono ancora sul ciglio della strada ad interrogarsi quale delle tre Furie fosse scesa dall’auto.

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